Il percorso terapeutico in T.F.: tappe e strumenti

Gli alpinisti si arrampicano
i centometristi corrono
i ciclisti pedalano
i velisti stanno seduti,
mangiano,bevono, fumano
e parlano, parlano, parlano.”
(Besana, 1995)

Il percorso terapeutico
in T.F.: tappe e strumenti
di Gennaro Galdo

Premessa
Il presente scritto vuole contribuire al dibattito in atto, interno ed esterno al mondo della terapia familiare, sul percorso terapeutico.
E’ importante premettere che i paragrafi che seguono non devono essere assunti da chi legge come dei dogmi assoluti, bensì una iniziale e sempre perfettibile proposta di descrizione di un percorso fatto di tappe, di passaggi che si pongono non tanto sequenzialmente ineludibili quanto come punti di repere, rispetto ai quali è opportuno che ogni terapeuta si chieda: Questo momento l’ ho /l’ abbiamo vissuto? I problemi che vi sono connessi li abbiamo affrontati? E, qualora la risposta fosse negativa, abbia il buon senso di chiedersi se valga la pena non toccare assolutamente la questione o introdurla nell’incontro successivo.
Come è noto ogni terapeuta ha un suo stile, una particolare modalità di porsi nel sistema terapeutico e fronteggiare l’invisibile e immateriale “rapitore della famiglia in trattamento”, un rapitore che, per l’appunto, non è una persona fisica, ma un insieme di circostanze, sedimentate nel corso degli anni e delle generazioni, fatte di miti relazionali, tentativi di soluzione senza esiti etc. che hanno sequestrato la famiglia all’interno di un contesto di relazioni e problemi ridondanti, di rimedi peggiori dei mali.
Nel corso della trattativa con questo rapitore più volte sarà evidente l’impossibilità di venire alle mani con lui e, in un’ordalìa, sconfiggerlo con l’esercizio della forza e/o della violenza morale e/o fisica: questo lasciamolo fare ai giudici e ai sacerdoti; noi non siamo alla ricerca di colpevoli, bensì di soluzioni e, anche quando tutti indicheranno il responsabile, ci porremo sempre l’obiettivo di includere anche lui negli ostaggi da liberare.
Gli stili personali dei terapeuti sono uno degli strumenti costitutivi dell’agire terapeutico, ciò nonostante essi non sono un punto di partenza, bensì di arrivo, il frutto di un esercizio a volte anche duro che non può non implicare dei momenti direttivi e prescrittivi da parte dei didatti e del/dei supervisori nei confronti degli allievi.
Inutile domandarsi nel momento nel quale l’istruttore ci insegna a nuotare: perché devo far questo? ; correremmo il rischio di affogare.
Solo successivamente , quando saremo abbastanza esperti, potremo avere uno stile veramente nostro, non derivato da ciò che definiamo “spontaneità”; difatti quest’ultima , molto spesso, altro non è che la riproposizione più o meno rigida di schemi comportamentali acquisiti conseguentemente alle nostre esperienze relazionali e non una libera e consapevole scelta tra due o più alternative che riusciremmo a individuare solo grazie all’addestramento e alla formazione ricevuti.
Pertanto quelli descritti qui di seguito sono come i paletti di uno slaloom : è opportuno passarli, soprattutto all’inizio della nostra pratica clinica, nell’ordine proposto; tra un paletto ed un altro potremo sbilanciarci e anche cadere; ognuno interpreterà il percorso a suo modo, sarà più o meno veloce in alcuni tratti, passerà più o meno vicino al paletto, allungherà più o meno la strada fra un paletto e l’altro…. Dal punto di vista della didattica è importante che l’allievo arrivi al traguardo senza saltare alcuna porta.
Chi leggerà queste pagine senza aver condiviso con l’estensore un’esperienza didattica avrà modo di farsi un’idea sul come viene concepita nell’ISPPREF la formazione e la clinica, con l’avvertenza che il leggere è ben diverso dall’esperire e che la pratica è ovviamente molto più ricca e articolata.
Per ogni fase sono inoltre descritti uno o più strumenti tecnici che frequentemente vengono utilizzati in quel momento: è ovvio che ciò non è esaustivo del bagaglio tecnico in terapia familiare, ma vuole solo introdurre alcune questioni pratiche e teoriche di base.

1 . Joining : la risonanza
La radice etimologica di to join ( unirsi, associarsi) è la stessa di iugum (in latino: l’attrezzo agricolo che serviva per unire due buoi che tiravano insieme l’aratro) e di yoga (unire, in sanscrito).
Si tratta di associarsi, unirsi, accoppiarsi al sistema familiare per dar vita al sistema terapeutico. A tal proposito S.Minuchin in “ Famiglie e terapia della famiglia” (1974) suggerisce l’utilizzo di due tecniche importanti per raggiungere l’obiettivo del joining : il mantenimento e la mimesi.
Riprendendo l’idea della metafora antropologica secondo la quale il terapeuta può essere visto come un antropologo che entra in contatto con una società ed una cultura a lui estranea (la famiglia),sia il mantenimento che la mimesi possono essere letti come due diversi riti iniziatici che permettono l’ingresso del terapeuta nei confini familiari ed hanno come scopo immediato il ritorno della famiglia nella seduta successiva (in tal senso il joining è una fase del percorso terapeutico che va ripresa in ogni seduta)
Nel rito del mantenimento il terapeuta /antropologo offre un consapevole sostegno alla famiglia che incontra , sostegno che può essere esercitato a tutti i livelli: struttura della famiglia nel suo insieme, sottosistemi, singoli individui. In altri termini, una volta individuate le regole della famiglia, è opportuno non solo rispettarle, ma sostenerle in prima persona, alleandosi, per esempio, con il componente della famiglia che ha più potere in quella particolare fase del suo ciclo vitale (mai contraddire la madre-marescialla o il padre-padrone).
Il rito della mimesi consiste invece nel condividere fino in fondo, riproducendole, le caratteristiche principali dello stile, delle modalità affettive, del timing nella comunicazione della famiglia: per esempio togliersi la cravatta quando si incontrano famiglie che vestono casual, non
apparire euforici ed iperattivi in contesti depressi e rallentati,interloquire con lo stesso ritmo paralinguistico della famiglia.
Si potrebbe suggerire, inoltre, una terza modalità tecnica: entrare in risonanza con la famiglia che ci si affida. Rinviando alla fase della diagnosi per una più puntuale definizione di risonanza, preferisco ricorrere qui ad una metafora letteraria:quando Barthes ci parla del punctum, del particolare che ci punge quando osserviamo un’immagine, parla di ciò che ci colpisce perché entra in risonanza con nostre precedenti esperienze emotivamente significative: “molto spesso il punctum è un particolare, vale a dire un oggetto parziale… Quel preciso punctum smuove dentro di me una grande benevolenza, quasi un intenerimento. Tuttavia il punctum non si cura della morale o del buon gusto: il punctum può essere maleducato (Barthes R. 1980)
Ovviamente fra tutti gli elementi che la famiglia ci presenta a tal scopo sarà opportuno scegliere quello che riterremo più utile allo stabilirsi del rapporto.
Se per esempio ci colpisce la dimensione e la forma delle calzature della giovane adolescente seduta a fianco della madre potremo dirle: “Anch’io una volta ho regalato a mia figlia un paio di scarpe così. Ricordo che mi costò tanta fatica accettare questa moda così diversa, ma poi mi ci sono abituato. Quand’è che tu e la mamma siete uscite a comprare queste belle scarpe? Mentre papà era a casa o in ufficio, ignaro di quel che succedeva?”
Oppure: “Belle scarpe! Mi ricordano gli stivali delle sette leghe! Da chi vuoi fuggire lontano?Da papà o da mamma?”
O, infine: “Scarpe grosse, cervello fino, un tempo si diceva dei contadini ma ora credo si adatti di più a chi sceglie scarpe come queste! Chi te le ha più criticate in famiglia, i tuoi genitori o tuo fratello? E contro chi intendi usarle per primo? Deve essere doloroso prendersi un calcio con scarpe come queste.”
In conclusione il joining ha come obiettivo lo stabilirsi di una salda relazione tra terapeuta e famiglia ed è una cornice contestuale che va monitorata e riproposta in ogni singolo incontro. Un buon joining presuppone comunque una lettura relazionale della famiglia che ci chiede aiuto.

2. Lettura delle modalità comunicative relazionali della famiglia: la domanda relazionale
Come anche viene riferito in un altro capitolo di questo testo, possono essere individuati otto parametri della comunicazione umana :a)non linguistico, b) linguistico, c) paralinguistico, d) contenuto, e) relazione, f) contesto, g)congruità, h) canali sensoriali privilegiati .
E’ ovvio che i parametri possibili sono ben più di otto (si pensi, ad esempio, alle regole della comunicazione o alle ridondanze etc.). Ci si è limitati a questo elenco per motivi pratici di necessaria brevità e per la radicale convinzione che, potendo governare otto parametri, si è in grado
di governare anche gli altri e leggere adeguatamente la comunicazione nel suo complesso.
Ogni parametro comprende due o più elementi strettamente connessi; così avremo che il parametro non linguistico comprende, tra l’altro, la postura, la prossemica, l’abbigliamento, l’espressione del volto, la direzione dello sguardo; quello linguistico almeno la semeiotica (i fonemi in sé, inclusi i neologismi, i paralogismi etc), la semantica( il significato e, nella fattispecie, l’alone semantico*) e la struttura sintattica e grammaticale del discorso.
*L’interpretazione analitica dunque potrebbe essere considerata come un caso particolare di lettura dell’alone semantico ( S.Piro 1967) effettuata secondo un codice ermeneutico in un contesto definito, dove prevale il parametro linguistico e percio’ un tempo lineare,quello della narrazione, fatto di presente,passato, futuro .
Il paralinguistico comprende tutto ciò che è strutturalmente collegato al linguaggio senza essere il linguaggio (per esempio tono della voce, velocità dell’eloquio, il gesticolare che si accompagna al linguistico,etc.); il parametro del contenuto si risolve nell’ “informazione”, nella notizia su una differenza che viene trasmessa all’interlocutore.
La relazione, distinta in simmetrica, complementare, di distanza, di indifferenza, è ciò che la comunicazione veicola anche a prescindere dal contenuto; contesto può essere definito tutto ciò che, entro confini dati, marchia (sovradetermina) le relazioni che vi si svolgono all’interno
Per congruità si intende, di solito, l’armonizzazione tra linguistico e non linguistico o, meglio, fra contenuto e comunicazione non linguistica; in
effetti se consideriamo i sette parametri (cioè tutti tranne, ovviamente, la congruità) sopraelencati, le incongruità possibili sono ben ventuno; qui mi limito a citarne una particolarmente significativa, quella fra contenuto e contesto ( per esempio pregare ad alta voce in una metropolitana affollata) che quasi sempre implica per il trasgressore l’attenzione psichiatrica con il conseguente etichettamento diagnostico e l’inizio possibile di una vera e propria carriera di deviante.
Infine i canali sensoriali privilegiati sono quelli che ciascuno di noi utilizza in modo privilegiato nel comunicare : visivo, uditivo, cinestetico ,essendo il canale olfattivo più connesso a comunicazioni inerenti la sfera della sessualità (ferormoni).
Come esplorare questi parametri in un primo incontro con la famiglia? La modalità che più di frequente viene da noi utilizzata è quella della domanda relazionale, che consiste praticamente nei seguenti passaggi:
1. partire da sé , dalle proprie sensazioni e risonanze (il punctum di Barthes);
2. elaborare un’affermazione (il che non vuol dire che nella frase non vi sia anche un interrogativo);
3. coinvolgere almeno altre due persone (preferibilmente due componenti della famiglia) oltre il nostro interlocutore.
Una domanda siffatta, oltre ad avere l’indiscutibile pregio di non negare, rimuovere, reprimere le nostre emozioni, bensì di utilizzarle nella relazione terapeutica, sollecita una risposta molto più frequente ed articolata che non una domanda strutturata in modo tale da prevedere come risposta una semplice asserzione o negazione.
Per esempio affermare “chi ti è più vicino quando sei triste come adesso, i tuoi genitori o tuo fratello?” è ben diverso che chiedere:”Sei triste?”
La prima, pur essendo una domanda, contiene in sé un’affermazione (che il nostro interlocutore sia triste) la quale evidentemente ci viene suggerita dal nostro status emotivo nell’interagire con la persona indicata come la portatrice del problema e, oltre lei, coinvolge altri due componenti della famiglia .
Un’altra versione (a mio parere ancora più raffinata) della stessa domanda è: “Tuo fratello è molto geloso quando si accorge che i tuoi genitori ti consolano della tua tristezza?”
Come è evidente questa versione è molto più provocatoria della prima e più facilmente può dar luogo a quel fenomeno della risonanza ai fini di destrutturare ed indurre una ristrutturazione delle relazioni familiari.
Con alcune domande relazionali, dosando attentamente il livello di provocatorietà e interloquendo con tutti i presenti, sarà facile esplorare gli otto parametri elencati all’inizio di questo paragrafo e farsi un’idea delle modalità comunicative e relazionali della famiglia; delle sue risorse come dei suoi problemi; di alcune modalità relazionali disfunzionali del tipo lettura della mente, triangolazioni, nominalizzazioni, etc. (Bandler R., Grinder J., Satir V., 2000)
Ma ora (siamo alla fine del primo ed all’inizio del secondo incontro) affrontiamo i perchè: i sintomi.

3.Il/i sintomi : la ridefinizione in positivo
Nel testo “La terapia multimodale” (Arnold A.Lazarus 1981) viene suggerito un acronimo,BASIC-ID che mi è stato spesso molto utile come promemoria per indagare alcune questioni fondamentali relativamente ai problemi che può presentare sia la persona indicata come la portatrice del problema (p.i.p.p.) che un altro componente della famiglia.
B sta per Behaviour: comportamento e ci ricorda di chiedere quali sono i comportamenti per i quali si chiede aiuto;
A sta per affectivity, traducibile con tono dell’umore;
S sta per sensoriality: canali sensoriali e ci ricorda la necessità, già evidenziata nel paragrafo precedente , di indagare sui canali sensoriali privilegiati dei componenti della famiglia;
I è l’iniziale di imagination , immaginazione, e ci ricorda della necessità di fare attenzione ad un range di sensazioni che va dalla stenonoia, passa per la fantasia fino al delirio, all’allucinazione;
C, cognitive, ci ricorda di esplorare quali sono le convinzioni che la persona indicata come la portatrice del problema e i suoi familiari si sono fatte a proposito delle difficoltà che li hanno portati in terapia;
I, interpersonal, vuole segnalarci la necessità di conoscere qual è il grado di socializzazione (amici, conoscenti, vicini) della persona indicata come la portatrice del problema e dei suoi familiari;

D, drugs, si riferisce non solo ad eventuali trattamenti farmacologici in atto, ma anche a tutto ciò che ha a che fare con il corpo (alimentazione, sport, sessualità, malattie fisiche etc.).
Questo fatto è particolarmente importante sia perché alcune (molte) condizioni psichiche sono strettamente connesse a condizioni fisiche, sia perché ci può dire qualcosa sui possibili rischi somatici che, come sappiamo, rappresentano spesso una possibile modalità di slittamento del sintomo; inoltre stili di vita disfunzionali (tabagismo, troppo alcool, alimentazione disordinata, poco sport) possono essere degli obiettivi sui quali lavorare per ottenere risultati utili anche ai fini preventivi.
Fin da questa fase è opportuno, per quanto possibile, operare una ridefinizione in positivo dei comportamenti e dei sintomi che ci vengono presentati dalla p.i.p.p. e dalla famiglia. Ovviamente in alcuni casi (per esempio tentativi di suicidio) questo sarà particolarmente delicato e richiederà da parte del terapeuta una tempestività, un timing adeguato.
In altri termini non è sempre possibile ridefinire p.e. un auto-avvelenamento con psicofarmaci come un coraggioso tentativo di mettere all’ordine del giorno nella famiglia la sofferenza di tutti e non solo dell’autore del fatto. Talvolta bisognerà aspettare del tempo, anche alcuni mesi, per ridare senso ad un gesto così disperato.
La situazione è diversa quando il sintomo è meno esplosivo, per esempio una fobia può essere ridefinita come la rappresentazione metaforica della galera dove è rimasta intrappolata la famiglia in quella fase del ciclo vitale, dunque un segnale di allarme utile a tutti.
E’ comunque sempre utile ricordare che la p.i.p.p. è la porta d’ingresso in un contesto, quello familiare, dove certamente esistono
problemi e nodi relazionali che, senza i sintomi ed i comportamenti messi in atto, o non sarebbero avvicinabili o, con ogni probabilità, darebbero luogo ad altri tipi di sofferenza coinvolgenti altri componenti della famiglia:con il suo comportamento sintomatico il paziente dunque protegge in modo paradossale e poco efficiente tutta la famiglia da guai forse peggiori;infine l’elaborazione di strategie utili alla soluzione dei problemi, lo stesso stare insieme per aiutare chi in quel momento è più in difficoltà, il riaprirsi di canali comunicativi poco o per nulla attivi da tempo, permette in definitiva alla famiglia di accumulare risorse relazionali che, una volta implementate, saranno poi a disposizione di chiunque ne avrà bisogno, sia per questioni di ordine psicopatologico o comunque implicanti sofferenza, sia per affrontare al meglio le difficoltà fisiologiche legate al succedersi delle tappe del ciclo vitale della famiglia.
Come vedremo più avanti (vedi slittamento di designazione) la ridistribuzione della sofferenza in quote di “ ordinaria infelicità”, come direbbero Freud e Schopenhauer (Freud S. 1930) (Scopenhauer A. 1822 – 1829) nella famiglia è uno dei compiti strategici del terapeuta familiare.

4. La diagnosi relazionale ed il contratto terapeutico : il genogramma e la metaforizzazione.

Anche a questo argomento è dedicato uno specifico capitolo di questo testo al quale si rinvia per un’esposizione più complessiva.
Qui sembra più opportuno riprendere alcuni aspetti fondamentali che a mio parere fanno delle diagnosi un peculiare strumento dell’agire terapeutico in terapia familiare.
Difatti , sebbene per tutti gli approcci clinici sia evidente la connessione tra le modalità del conoscere e la conseguente definizione del problema da affrontare, nel campo della psicoterapia relazionale l’atto del diagnosticare è di per sé uno strumento clinico indispensabile al percorso terapeutico.
La diagnosi relazionale è un “vestito” cucito su misura dal terapeuta per/con la famiglia per una determinata tappa del percorso clinico. Questo vestito può cambiare nelle tappe successive e l’insieme degli abiti così confezionati costituisce un “corredo diagnostico” che rimane a disposizione non solo del percorso clinico ma, nel migliore dei casi, di una parte importante del percorso di vita della famiglia.
Così, col cambiare delle stagioni dell’esistenza, potrà tornare comodo rimettere “abiti diagnostici” più consoni alle esperienze che si vivono: una coppia potrà dunque parlare dell’epoca della “guerra delle merendine” riferendosi al periodo nel quale entravano in conflitto sui modelli educativi retaggio delle rispettive famiglie di origine e riproposto nei compiti di allevamento dei figli nella loro nuova famiglia; di “sindrome del porcospino” per definire il comportamento problematico del figlio adolescente ; di nido vuoto per ricordare il disagio connesso allo svincolo dei figli e così via.

Ma potrà altresì riprendere se necessario, una qualunque di queste metafore per affrontare problematiche risonanti in momenti anche diversi. “Quand’è che hai deciso di diventare anche tu un porcospino?” potrebbe dire il marito alla moglie delusa ed un po’ assente per via di difficoltà incontrate nella sua vita professionale.
Diagnosi come metafora dunque e, più esattamente, come metafora catacretica e generativa ( Boyd R. Kuhn T.S. 1979), destinata cioè a maneggiare in modo creativo problemi con i quali si deve avere a che fare, nonostante non se ne conoscano, se non approssimativamente, le origini e la natura.
Diagnosi che non si riferiscono all’individuo ma all’insieme delle relazioni che coinvolgono lui e le persone a lui vicine; diagnosi che non designi ma ridefinisca; diagnosi che in qualche modo indichi non solo la bottiglia mezza vuota, ma anche quella mezza piena, cioè difficoltà e risorse della famiglia; diagnosi, infine, che risuoni con il terapeuta e dunque non faccia riferimento ad una tassonomia irrigidita da schemi quantitativi, bensì ad esperienze omeomorfe e vitali, emotivamente ed affettivamente significative.
Quindi si ripropone, nel nostro lavoro, il confine fra arte e scienza, creatività e rigore, ineludibile coinvolgimento personale ed indispensabile distacco professionale. Come procedere?
Il suggerimento cardine è tramite il genogramma trigenerazionale (Montagano S. e Pazzagli A. 1989) della famiglia che ci chiede aiuto. E’ in questa trama che sono contenuti oltre che i problemi, le soluzioni, la visione sistemica dei problemi che ci vengono presentati, la lettura in positivo di componenti altrimenti
incomprensibili e dolorosi, le nuove personali risonanze con la famiglia. Sarà il genogramma, dunque, a suggerirci la “password” che ci permetterà di accedere al “programma relazionale” della famiglia in trattamento che farà comparire sul nostro monitor immagini a noi non del tutto sconosciute e ci consentirà, interagendo con la famiglia, di costituire il sistema terapeutico.
Poi dovremo fidarci ed affidarci; fidarci del fatto che le destrutturazioni che seguiranno all’inserimento di oggetti viventi (quali sono le metafore) (Iervolino D. 1984) nella famiglia siano seguite da ristrutturazioni adeguate (come in ogni sistema vivente e dunque neghentropico); affidarci al nostro buon senso e alla nostra etica per decidere quando sospendere l’azione e preparare il terreno allo svincolo terapeutico.
Il rigore deriverà , quando necessario, da una lettura delle relazioni secondo una non improvvisata ermeneutica sistemica e comunque sarà garantito dall’osservazione e dall’individuazione di avvenimenti che accadono nell’hic et nunc della stanza di terapia.
La flessibilità ci sarà suggerita, quando opportuna, dall’intuizione non disgiunta dall’esperienza e comunque garantita, quando lo riterremo utile e/o indispensabile, da una supervisione.
Se è vero, come è vero, che l’intuizione ci salva la vita almeno tre volte al giorno, non vedo perché dovremmo rifiutarci di usarla anche nei nostri contesti professionali, sia pure in condizioni di sicurezza; d’altronde più ne faremo uso, più diventerà per noi uno strumento affidabile. Meno ci aggrapperemo agli schemi, più la nostra azione risulterà fluida ed efficace: si tratta di esserci in terapia, come persona prima che come professionista;

questo è il prezzo (ma anche la gratificazione) che dobbiamo pagare per rivestire il nostro ruolo di Prometei della psiche, infatti è il fuoco delle emozioni che dobbiamo, con i nostri pazienti, accendere e governare, non il gelo delle formule pre-confezionate e surgelate.
In un percorso terapeutico accade di dover proporre anche più di una diagnosi relazionale . Quando questo succede ci si dovrà preoccupare di assicurare una coerenza tra l’una e l’altra e di segnalare alla famiglia il passaggio ad una fase diversa, per la quale il “nuovo vestito” è più adatto.
Infine è opportuno non disprezzare le metafore (perché di questo si tratta) pre-confezionate del DSMIV; potremmo sempre utilizzarle come se fossero i “cognomi” della diagnosi relazionale che comunque è il nome con il quale, insieme alla famiglia, abbiamo battezzato il nodo relazionale da sciogliere.

5. La performance: la negazione del miglioramento
Non è infrequente che, dopo pochi incontri, dedicati come abbiamo visto essenzialmente al joining e alle procedure diagnostiche, la p.i.p.p. presenti un discreto miglioramento sintomatologico, talora drammatico (fuga nella salute).
Pur essendo importante, ai fini della relazione terapeutica, che il/i sintomo/i migliorino, già in questa fase, è tuttavia opportuno considerare questo fenomeno instabile e non risolutivo dei problemi presentati dalla famiglia. Molti fattori concorrono a determinare la performance iniziale
del terapeuta. Ne cito qui di seguito alcuni che mi sembrano i più importanti
1. l’emergere di nuove potenzialità, grazie al costituirsi di un nuovo insieme, il sistema terapeutico, che include anche la figura del terapeuta: in ossequio al principio di non sommatività (l’insieme non è pari alla semplice somma delle parti che lo costituiscono); la presenza nel contesto terapeutico di un nuovo elemento permette il manifestarsi, nel sistema così costituitosi, di qualità nuove e del tutto imprevedibili rispetto agli stadi iniziali del percorso terapeutico: l’operatore qui funziona come un enzima che catalizza interazioni tra i componenti della famiglia di tipo nuovo, non sperimentato in precedenza o trascurate a causa di vincoli relazionali strutturati nel tempo ( per esempio la rottura con una o ambedue le famiglie di origine dei genitori) a causa di conflitti generazionali o per altri motivi, anche solo casuali.
2. la naturale tendenza dei sistemi viventi ad autoripararsi (neghentropia). Non si evidenzierà mai abbastanza che il terapeuta non è un deus ex machina ma un maieuta e che, come gli antibiotici non hanno alcun effetto in organismi del tutto privi di difese immunitarie, così anche una psicoterapia non avrebbe alcuna efficacia se la persona, la famiglia, i gruppi in terapia non possedessero già le possibili soluzioni al loro problema.
Un buon clinico è colui che aiuta la natura a fare il suo corso e sta attento a non forzare né le strutture né i tempi delle famiglie che gli si affidano .Come abbiamo visto la diagnosi relazionale è di per sé un potente strumento terapeutico; essa è una metafora viva che aiuta la famiglia a costruire una realtà diversa e in modo diverso dal solito, pur
utilizzando linguaggi e comportamenti non estranei alla famiglia in trattamento. Ma miglioramenti troppo repentini, interni ed esterni, devono far sospettare il terapeuta che possano essersi attivate , del tutto inconsapevolmente, dinamiche familiari tese a proteggere la struttura di fondo delle trame familiari relazionali. In questo senso la “fuga nella salute” è una delle “fregature” più cocenti che possano capitare ed è anche una delle più difficili da recuperare. Le considerazioni di cui sopra ci devono motivare dunque a fidarci poco dei miglioramenti che si verificano in questa fase del percorso terapeutico e ad adottare un atteggiamento prudente che il più delle volte può esplicitarsi
da parte del clinico attraverso la negazione del miglioramento. Negare non significa squalificare (non è vero miglioramento) o, peggio, sconfermare (non c’è alcun miglioramento) , ma ridimensionare e mostrarsi giustamente preoccupato di quel che potrebbe accadere ora che il problema che motiva la terapia non è più così urgente e pressante. Espressioni del tipo “ho il dovere di mettere le mani avanti, vediamo se la situazione regge nel tempo e, soprattutto, se non ci sarà un altro portavoce della vostra sofferenza” aiutano la famiglia ad assumere una visione più realistica dei suoi problemi; proteggono il terapeuta da una sempre possibile disconferma del suo operato e lo mettono in una posizione privilegiata, anche se inconsueta: deve essere la famiglia ad insistere che la situazione è migliorata, non il terapeuta che, invece, riconoscerà l’avvenuto miglioramento dopo un tempo congruo, così da poter esplorare nuovi territori delle relazioni familiari e indurre anche un consolidamento dei risultati raggiunti.

6. la deriva: la prescrizione paradossale
A questo punto del percorso terapeutico , vuoi per un nostro attivo intervento teso ad evidenziare incongruità, nominalizzazioni, letture del pensiero (Bandler R., Grinder J., Satir V., 2000), strutture e miti familiari etc. , vuoi per il semplice fatto che si è venuto a costituire il sistema terapeutico ( che Andolfi chiama con felice metafora il terzo pianeta) (Andolfi M., Angelo C. 1984) e che quindi la nostra stessa presenza ha aperto nuove possibilità e favorito il manifestarsi di nuove potenzialità, così come prevedono due importanti proprietà dei sistemi (la neghentropia e la non –sommatività) spesso si sono già verificati uno o più importanti cambiamenti (vedi fase della performance). Immediatamente dopo molto spesso si va incontro ad una situazione caratterizzata dal fatto che la p.i.p.p. e la sua famiglia non presentano ulteriori miglioramenti, ma , anzi, tendono a riprendere gli usuali comportamenti e riadottare l’usuale epistemologia (visione del mondo). E’ questa la fase dello stallo, dove si evidenzia più chiaramente che in altre circostanze la deriva familiare. Con questo termine, deriva, intendiamo il risultato finale del processo di adattamento di ogni famiglia alle circostanze, gli eventi, i contesti che l’hanno coinvolta lungo le generazioni. Come è noto deriva è un termine marinaro che indica l’applicazione di una forza laterale, data dalla corrente, che spinge l’imbarcazione in una direzione diversa da quella del suo moto, per cui essa, oltre che spostarsi in avanti, si sposta di lato e muta di direzione e velocità.

Allo stesso modo famiglie e individui vengono sottoposti a forze inconsapevoli “sotto il pelo dell’acqua” (per esempio miti familiari, lealtà transgenerazionali etc.) che modificano la loro velocità e deviano la loro rotta nell’universo degli eventi nei quali vengono coinvolti, inclusa la terapia. Il timoniere (detto per inciso kubernautes in greco) reso edotto di un simile fenomeno, quando conduce la barca su di una rotta , per esempio da est verso ovest, per raggiungere la sua meta in presenza di una corrente da sud verso nord, punterà la prua più verso sud, proporzionalmente all’angolo di deriva, utilizzando così anche la corrente per arrivare in porto.
In terapia un bell’esempio ce lo fornisce Freud nel caso dell’ “Uomo dei lupi” (L’uomo dei lupi, Universale Economica Feltrinelli, 1994, pg193),afflitto da una stipsi ostinata.
“Si sa che il dubbio ha un’importanza fondamentale per il medico che analizza una nevrosi ossessiva: è l’arma più forte del malato, lo strumento privilegiato della sua resistenza. Grazie al dubbio anche il nostro paziente, trincerato dietro un’indifferenza rispettosa, per anni potè scrollarsi di dosso le fatiche della cura. Quindi non si producevano cambiamenti e non si trovava neanche il modo di convincerlo. Finalmente mi resi conto dell’importanza che a questo scopo poteva avere il disturbo intestinale: rappresentava quella scheggia di isteria che è regolarmente reperibile alla base di una nevrosi ossessiva.
Promisi al paziente quella cosa che suscitò la sua totale incredulità: il completo ripristino della sua funzione intestinale. Ebbi così la soddisfazione di vedere scomparire il suo dubbio quando l’intestino, come un organo affetto da isteria, cominciò a <dialogare> durante il lavoro,
ritrovando in poche settimane quella funzione normale rimasta così a lungo pregiudicata” .
Il fenomeno della deriva non è una qualità attribuibile alla famiglia (così come quando parliamo di rigidità e/o resistenza) bensì un contesto nel quale famiglia e terapista si trovano immersi e al quale sono sottoposti. Solo se ci opponiamo frontalmente alla corrente allora incontreremo la resistenza e la rigidità altrimenti , come ogni buon timoniere, avremo cura di scegliere una rotta che utilizzi anche il fenomeno della deriva per aiutare la famiglia a progredire e a recuperare le proprie competenze.
7. gli obiettivi
fase del caffè
Come è noto esistono numerosi approcci in terapia familiare: strutturale, sistemico-strategico, esperienziale, psicoanalitico, trigenerazionale, psicoeducativo, costruttivista, costruzionista etc..
( Bertrando P., Toffanetti D., 2000).
E’ oggi difficile orientarsi in un campo così articolato e vario, non esente da confronti dialettici, quando non attraversato da conflitti aperti. Sono convinto che ogni terapeuta debba essere lasciato libero di scegliere, se non addirittura di costruirsi un suo modello e, conseguentemente, perseguire degli obiettivi coerenti sia all’approccio teorico che ai presupposti epistemologici che ha deciso di privilegiare. Forse l’importante è non affezionarsi troppo alle proprie idee e lasciare anche uno spazio alla propria serendipità (Merton R.K., Barber E.G.,1992) .

Infatti sento che , se vogliamo essere efficaci nell’avere a che fare con i problemi che ci presentano le famiglie in trattamento, dobbiamo essere pronti a percepire anche fenomeni imprevisti e imprevedibili, come accadde a Fleming, e a moltissimi altri scienziati, quando osservò che una colonia di batteri era stata debellata da una muffa verdastra formatasi per caso.
Fleming non era alla ricerca di un antibiotico ma, da buon batteriologo, era “preparato” a vederlo se per caso l’avesse incontrato.Un altro esempio di serendipità è l’invenzione del polistirolo espanso da parte di Ray Mc Intire nel 1943 (Rivieccio G. 2001) e come non ricordare un caso clamoroso di serendipità fallita quale la (mancata) scoperta dell’America da parte di Cristoforo Colombo?
Difatti fu Amerigo Vespucci otto anni dopo circa, nel 1499, a dare il suo nome al nuovo continente.
Vorrei qui di seguito non descrivere un modello generale delle terapie familiari, come già tentato da J.J.Miermont ed altri (Miermont J. 1987) quanto, piuttosto, alcuni elementi comuni e utili che è possibile reperire in quasi tutti i modelli: la circolarità (feed-back), l’autoreferenzialità (self-reference), la tempestività (timing).
Per circolarità si intende la necessità di tenere presente il fatto che, ogni qual volta scegliamo un obiettivo in terapia (per esempio il ripristino dei confini generazionali) dobbiamo attenderci una retroazione che può riproporci il problema ad altri livelli anziché far evolvere il sistema nel senso da noi desiderato. Ed è in base a questa considerazione che possiamo scegliere tra tecniche diverse.

Per esempio, se ci aspettiamo una retroazione omeostatica (feed-back negativo) saremo indotti più ad una prescrizione paradossale che esasperi, in un’ordalìa (Haley 1984), la posizione genitoriale di un figlio anzichè utilizzare una scultura per far rappresentare e ,successivamente, esplicitare i vissuti emotivi di genitori trasformati in figli da un primogenito “nonnificato”.
Il concetto di autoreferenzialità si può meglio cogliere, a mio parere, se partiamo dalla fisica quantistica e, più precisamente, dal principio di complementarietà enunciato a Como in un congresso internazionale da Bohr (nel 1927); il principio di complementarietà consente di superare la contraddizione del dualismo onda-particella per il quale elettroni, fotoni etc. si comportano come particelle in alcuni esperimenti e come onde in altri .
“La contraddizione onda-particella viene spiegata come una conseguenza dell’impossibilità di tracciare una netta linea di demarcazione tra l’oggetto osservato (la particella) ed il soggetto che osserva (lo sperimentatore); il manifestarsi del fenomeno in modo definito sotto una forma o l’altra dipende solo dal tipo di esperimento scelto per studiarlo” (Rivieccio G., 2001)
Anche in psicologia l’osservatore-terapeuta e la famiglia-osservata sono inscindibili e ciò che osserviamo non è tanto una realtà oggettiva quanto la risultante dell’interazione tra il clinico e la famiglia.
In questo senso l’esperienza terapeutica non è riferibile all’esterno del sistema terapeutico; per la sua unicità essa è solo ricostruibile a posteriori e cioè narrabile; ma ciò che raccontiamo non è ciò che abbiamo vissuto nel rapportarci alla famiglia: ciò che descriviamo è una
“giustificazione a posteriori delle nostre azioni” (Varela F.J. 1992), utile per l’apprendimento così come quando vinciamo una gara di corsa: non sappiamo perché quella gara l’abbiamo vinta ed un’altra, a parità di altri fattori (allenamento, condizioni ambientali etc.) l’abbiamo persa. Non solo: come è noto mentre agiamo, se vogliamo agire per il meglio, dobbiamo “non pensare” o meglio espungere quella quota di coscienza parassita non indispensabile all’azione, se alla nostra azione vogliamo dare fluidità ed efficacia. Il che presuppone, ovviamente, una fase, quella dell’apprendimento, nella quale siamo estremamente consapevoli ed una fase, quella dell’allenamento, nella quale ci esercitiamo per perdere questo tipo di consapevolezza. Un esempio calzante a questo proposito è quello della scrittura. Quando apprendiamo a scrivere , all’inizio, ci tocca compitare ogni singola lettera . Quando più tardi ci alleniamo a scrivere , gran parte delle nostre energie è dedicata a perdere la consapevolezza dell’atto della scrittura per dare a questa fluidità ed efficacia; il che non sarebbe ovviamente possibile se insistessimo a compitare ogni singola lettera di ciò che scriviamo.
La tempestività in psicoterapia familiare consiste nello scegliere il momento giusto per l’agire terapeutico. Per esempio, in una famiglia con problemi gravi quali quelli derivati da comportamenti disturbati di solito etichettati come schizofrenici, chiedere, soprattutto all’inizio del percorso terapeutico, di esperire grandi cambiamenti di tipo strutturale o altro è di solito prematuro: è possibile far sperimentare loro piccoli cambiamenti (per esempio chi prepara il caffè la mattina, chi compra il giornale o paga le bollette etc.) che, se realizzati, possono essere degli utili indicatori e preludere a cambiamenti più importanti e decisivi.

Va così configurandosi una conformazione ciclica del percorso terapeutico, soprattutto in questa fase che, come è ovvio , non è scindibile dalla diagnosi.
DIAGNOSI/ OBIETTIVI TERAPEUTICI
RISONANZA RISONANZA
CAMBIAMENTO
Infatti una diagnosi relazionale, in quanto tale, non può strutturarsi se non come oggetto dinamico e processuale al quale sono legati specifici obiettivi terapeutici i quali, una volta realizzati attraverso il cambiamento, inducono nuove risonanze nel sistema terapeutico e, altresì, nuove metafore catacretiche, nuovi obiettivi e così via.
Allorquando questa modalità di procedere viene “incorporata” nel sistema e viene utilizzata come una nuova epistemologia nella famiglia, allora il terapeuta può preparare la fase dello svincolo.
Tutto ciò diviene particolarmente evidente nel momento in cui emergono nuove designazioni e altri componenti della famiglia si propongono a rappresentarne le difficoltà ed i problemi.

8. lo slittamento di designazione : la provocazione
Allorquando dunque un componente della famiglia, tramite un comportamento indesiderato, una sofferenza emotiva o un disturbo fisico propone se stesso come nuova p.i.p.p., il terapeuta può verificare in “presa diretta” se le nuove risorse strutturatesi durante il percorso terapeutico mettono la famiglia in grado di affrontare le difficoltà emergenti oppure se è necessario dedicare attenzione terapeutica al sottosistema che esprime la sua sofferenza in questa fase. Il fenomeno dello slittamento di designazione è molto frequente nelle terapie familiari con bambini . Difatti, una volta che si è verificato il miglioramento sintomatologico del figlio molto spesso emergono problemi molto importanti inerenti la coppia per la quale sarà utile strutturare incontri e setting specifici. E’ opportuno che questo avvenga comunque dopo che le sofferenze del figlio siano state affrontate e in gran parte risolte altrimenti una delle retroazioni che potranno verificarsi sarà quella dell’interruzione della terapia in quanto i genitori sono motivati a venire dalla sofferenza del figlio e non dalla propria.
In generale, però, lo slittamento di designazione è un indice prognostico favorevole, in quanto segnala al terapeuta che la precedente designazione rigida assegnata alla p.i.p.p. si è resa flessibile e potenzialmente può essere distribuita in quote di tollerabile malessere tra tutti i componenti della famiglia. Dinamiche che prima erano
nascoste dalla clamorosità del quadro clinico del paziente designato vengono alla luce ed ora possono essere elaborate con gli strumenti acquisiti durante la terapia.
E’ molto importante che in questa fase il terapeuta limiti al massimo i suoi interventi e dia una lettura rassicurante dei nuovi sintomi emergenti. Di fatti è in queste circostanze che la famiglia, agendo come una squadra allenata, può affrontare col minimo dei supporti esterni, i problemi che si presentano utilizzando le risorse relazionali implementate in precedenza.
Una delle tecniche che, nella mia esperienza, più si presta alla gestione di questa fase è quella della provocazione, ben rappresentata da una domanda di questo tipo, rivolta alla p.i.p.p.: “Chi, secondo lei , è destinato a prendere il suo posto nella famiglia e come? Suo padre con una malattia somatica, per esempio un attacco cardiaco, sua madre con la depressione, o uno dei suoi fratelli con una trasgressione clamorosa come firmare un assegno a vuoto?”
L’effetto dirompente di un simile approccio provocatorio ha lo scopo di mettere in evidenza i rischi ancora presenti nel nucleo familiare in trattamento, di prevenire, dunque la designazione di un altro capro espiatorio e ostacolare un abbandono della scena terapeutica da parte della famiglia ; di fatti in questa fase molto spesso i componenti della famiglia sono ancora esposti a due dinamiche potenzialmente patogene: da un lato l’attenuarsi o la scomparsa dei sintomi della p.i.p.p. fa sì che ciascun familiare possa prestare più attenzione a sé e dunque ai suoi dolori, fino al punto che, talvolta, qualcuno possa proporsi per riempire quello “spazio vuoto” non più funzionalmente occupato dal familiare precedentemente sintomatico; dall’altro può accadere che l’emergere di
sintomi in altri familiari rimotivi la p.i.p.p. a riprendere le funzioni di capro espiatorio, di “specialista in sofferenza umana” che prima le apparteneva.
Bisogna anche considerare il fatto che la prospettata chiusura dell’esperienza terapeutica può esercitare sulla famiglia delle retroazioni omeostatiche finalizzate, di fatto, al mantenimento del legame terapeutico, dunque questa esperienza sarà un’utile occasione per rivedere, coerentemente alle risonanze emotive attivate, le modalità con le quali sono avvenuti nel passato o stanno avvenendo nel presente svincoli generazionali, separazioni e differenziazioni nel corpo familiare.
Infine, in un numero limitato di casi, sarà opportuno indirizzare, chi nella famiglia ne facesse richiesta, ad una terapia individuale che può rappresentare un’evoluzione del sistema terapeutico coerente con le necessità di differenziazione di alcuni componenti della famiglia, precedentemente particolarmente invischiati e dipendenti.
9. la separazione : l’aggancio alle risorse naturali della comunità
Attraversata e, in qualche modo, superata la fase dello slittamento di designazione, avuta dunque una prima verifica delle capacità della famiglia di affrontare autonomamente i problemi che fisiologicamente si presentano lungo l’arco del suo ciclo vitale, attraversando strategie sufficientemente
adattative e flessibili, il terapeuta percepisce la necessità di procedere alla separazione dalla famiglia che gli ha chiesto aiuto. Si mette dunque in moto un processo inverso a quello della costituzione del sistema terapeutico che ha come obiettivo la separazione tra i due sottoinsiemi (famiglia e terapeuta) che lo costituiscono.
Il problema della separazione è, principalmente ,a mio parere quello del ricordo e dell’utilizzo delle risorse naturali della comunità.
Come si diceva all’inizio di questo scritto, il terapeuta deve confrontarsi con un rapitore virtuale della famiglia che gli chiede aiuto. Le trattative durano quanto dura tutto il percorso terapeutico. Alla fine, ottenuto il rilascio, anch’egli deve abbandonare il campo, ma lascia il ricordo suo e dell’esperienza vissuta insieme. Ovviamente il ricordo è reciproco ed ambedue i contraenti la relazione terapeutica, ciascuno per suo conto, hanno il compito di rielaborarlo. Così accadrà che, nel migliore dei casi, un altro fantasma abiterà nella famiglia che è stata in trattamento, quello del terapeuta il quale a sua volta sarà abitato, nella sua memoria, dalla famiglia con la quale si è incontrato in circostanze particolarmente significative sul piano emotivo ed esperienziale.
Si è più volte affermata l’importanza, quale esito conclusivo di un’esperienza terapeutica, dell’acquisizione di nuove abilità da parte della famiglia, abilità che concernono non solo e non tanto il cosa fare ma il come, nel senso metodologico e gnoseologico del termine. E’ opportuno sottolineare il fatto che questo non riguarda solo la famiglia ma anche il terapeuta: anche lui esce arricchito di nuove esperienze e nuove abilità da un percorso terapeutico soprattutto, ma non solo, quando gli esiti sono favorevoli. E ciò che ha acquisito entrerà a far parte del suo “bagaglio
culturale e tecnico” e potrà essere utilizzato anche in altre occasioni, con famiglie diverse, anche strutturalmente molto lontane da quella che gli ha lasciato in eredità nuovi preziosi strumenti.
Il deuteroapprendimento riguarda, dunque, sia la famiglia sia il terapeuta. Nel concreto la fase di separazione deve prevedere almeno i seguenti punti:
1. monitorare la famiglia rispetto alla fase di ciclo vitale che ella fisiologicamente attraversa (per esempio i genitori sono pronti e disponibili a lasciare che il figlio adolescente si sperimenti nel mondo esterno?);
2. rafforzare i comportamenti adeguati e l’autostima familiare, complimentandosi (finalmente) per i successi ottenuti;
3. testare i cambiamenti avvenuti nella famiglia per esempio affidando compiti coerenti con le nuove abilità acquisite.
Ma a chi il terapeuta affida la famiglia alla conclusione del percorso terapeutico? Certamente non ad un’istituzione (per esempio il Servizio Sociale) né ad una qualsiasi organizzazione (politica, confessionale etc.) bensì a quell’insieme di enti, persone, strutture etc. che costituiscono nella loro complessità la comunità nella quale la famiglia intesse le sue trame relazionali e la sua variegata rete di rapporti sociali. Ed è appunto questa rete che ha il compito di sostenere, supportare ed interagire con le famiglie che ne costituiscono una parte fondamentale.
E’ questa rete che possiede quelle risorse naturali senza l’attivazione delle quali ogni psicoterapia è destinata certamente al fallimento.
Nelle ultime sedute una particolare attenzione dunque deve essere posta dal terapeuta nell’esplorare, con la famiglia, questa rete, nel verificare che
ogni singolo componente della famiglia vi sia connesso e sia in grado da un lato di utilizzare le sue risorse, dall’altro di contribuire ad implementarle.
Si procederà poi ad un allungamento degli intervalli di tempo tra un incontro ed un altro, avendo cura di preannunciare che questa modalità permetterà alla famiglia di verificare di poter camminare sulle proprie gambe.
Infine si prospetterà alla famiglia che, ancora per qualche tempo, il terapeuta ad intervalli regolari li convocherà per degli incontri di follow-up (vedi paragrafo successivo) e che, al di fuori di questi, sarà sempre possibile richiamarlo, per una consulenza, semmai in coincidenza di un passaggio di fase del ciclo vitale, senza che ciò implichi la riapertura di una vera e propria psicoterapia.
Nel commiato si avrà cura di ricordare che i risultati raggiunti sono il frutto di un lavoro di squadra e che le risorse nuove che si sono attivate saranno ora un bene relazionale a disposizione della famiglia ogniqualvolta un suo componente si trovasse in difficoltà, ma anche per supportare la fisiologica crescita di ciascuno.
10. il follow-up
La catamnesi è parte integrante del percorso terapeutico.
Infatti, come si ridirà anche più avanti, dà al terapeuta la possibilità di incontrare l’altra faccia della famiglia, quella più caratterizzata dal benessere che non dalla sofferenza, più dal saper fare che non dall’impotenza.

Ciò per almeno tre ordini di motivi:
1. con l’attività di follow-up è possibile meglio conoscere e riconoscere risorse naturali della comunità in generale e di quella famiglia in particolare, che per il futuro ci permetteranno di contrarre relazioni di aiuto più efficaci e meno faticose;
2. negli incontri successivi alla fine della terapia, soprattutto quelli che si tengono a notevole distanza di tempo è possibile contrarre agevolmente una relazione d’aiuto di tipo consulenziale, finalizzata, cioè, ad indirizzare le famiglie verso un utilizzo ottimale delle risorse in suo possesso;
3. qualora si rendesse evidente la necessità di intervenire ai fini di una ristrutturazione complessiva delle relazioni familiari e dunque di iniziare un’altra psicoterapia, questo avverrebbe in anticipo rispetto ad un evento critico e dunque in un contesto non contrassegnato dall’urgenza di fronteggiare una crisi, meno impegnativo per il terapeuta e la famiglia dove i sintomi e la sofferenza che vi è connessa sono meno strutturati e più gestibili.
Non esistono schemi prefissati per la gestione del follow-up e pertanto è possibile procedere con un’ampia libertà di movimento.
La cadenza che, nella mia esperienza, meglio si presta a questa attività è di 6, 12, 24 mesi dopo la fine della terapia, avendo cura di preavvertire la famiglia fin dall’inizio del percorso terapeutico che sono previsti alcuni incontri di follow-up gratuiti che potranno essere tenuti anche da persone diverse dal terapeuta.
Il questionario di verifica da noi proposto (il Duke, vedi capitolo 13) è uno dei tanti a disposizione del terapeuta, che potrà scegliere quello che più si
adatta alle sue modalità cliniche e ai suoi intenti a seconda se questi siano orientati più ad una verifica dell’efficacia /efficienza della terapia, ad un confronto con altri modelli ad un intervento più o meno codificato di “presa in carico leggera” della famiglia etc..
L’importante è entrare nell’ottica che conoscere l’altra faccia della luna della famiglia che trattiamo, la faccia della salute che spesso ci viene per ovvi motivi nascosta, è altrettanto utile al terapeuta che alla famiglia, qualifica il nostro lavoro clinico e lo arricchisce di strumenti spesso impensabili con i quali possiamo entrare in contatto solo in contesti diversi da quello strettamente terapeutico.
Alcune considerazioni conclusive
Indubbiamente l’evolversi della psicologia e della psicoterapia nei suoi diversi approcci è sempre vissuto di polarità: individuo-gruppo (famiglia); intrapsichico-relazionale; perché (le cause) – come (le soluzioni) e così via.
Molto spesso queste polarità si sono costituite come fortilizi imprendibili e impenetrabili, ne abbiamo visto e vissuto nel passato un esempio nel dibattito fra il variegato mondo degli analisti, centrati sull’intra-psichico e l’altrettanto variopinto universo dei terapeuti familiari, quasi ossessionati dagli insiemi chiamati sistemi e dal loro patrimonio relazionale.

Solo recentemente capita di imbattersi in iniziative culturali e scientifiche più aperte, dedicate alla terapia psicoanalitica della coppia e della famiglia o, dall’altro lato, all’individuo relazionale e alla “scatola nera” dell’intrapsichico. Due cammini destinati ad incontrarsi ma non a confondersi, pena la perdita di originalità ed efficacia.
D’altronde tutti dovremmo riconoscerci in queste parole di Roland Barthes che qui riporto testualmente:
“Del resto l’abitudine scientifica di considerare la famiglia unicamente come tessuto di costrizioni e di riti non mi piace affatto: o la si codifica
come un gruppo di appartenenza immediata oppure se ne fa un groviglio di conflitti e di rimozioni. Si direbbe che i nostri pensatori non possano concepire che vi siano famiglie in cui ci si ama” (Barthes R. 1980).

BIBIOGRAFIA
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A.P.F. 1984 vedi anche Andolfi Maurizio- Angelo Claudio – D’Avena Paola “La terapia narrata dalle famiglie” Raffaello Cortina Editore 2001
Arnald A. Lazarus “The practice of multimodal therapy” (1981)
Bandler R. – Grinder J. – Satir V. “Changing with families” Science and Behaviour Books 2000
Trad it. “Il cambiamento terapeutico della famiglia” 2000 Borla
Barthes Roland “La chambre claire: Note sur la photographie” cahier du cinema Edizions Gallinard – Smil trad. italiana “La camera chiara “ Einaudi 1984
Bertrando P. – Toffanetti D. “Storia della terapia familiare” Cortina 2000
Besana D. “Un mare di cazzate – l’immondo pianeta della vela visto da un traditore” Mondatori 1995
Boyd Richard e Kuhn Thomas S. “Metaphor an theory change: what is “ Metaphor a metaphor for” e “Methaphor in sience” in “Metaphor and tought” a cura di A.Ortony 1979 Cambridge University Press trad.it. “La metafora nella scienza” Feltrinelli 1983
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Trad it. “Il disagio della civiltà” in “Freud opere” Boringhieri 1978
Freud Sigmund “Aus der Geschichte einer infantilen neurose” 1918 trad it. Con testo a fronte “L’uomo dei lupi” Feltrinelli 1994
Haley J. “Ordeal therapy” 1984 Sossey-Bass Publishers trad. it. “Il terapeuta e la sua vittima”
1985 Astrolabio
Iervolino Domenico “Il cogito e l’ermeneutica” 1984 Procaccini
Mc Graw – Mill Book Company trad it.” La terapia multimodale”- Astrolabio ed. 1989
Merton Robert K. And Barber Elinar G. “The travels and adventures of Serendipity. A study in historical semantics and the sociology of science”1992 trad it. “Viaggi e avventure della Serendipity” Il Mulino 2002
Miermont J. “Dictionaire des therapies familiales.Theories et pratiques” 1987 Payot
Trad it. “ Dizionario delle terapie familiari “ 2000 Borla
Minuchin Salvador “Familes and family therapy” 1974 President and Fellows of Harvard College
Trad. It. “Familie e terapia della famiglia” – Astrolabio Edit.1976
Montagano Alessandra- Pazzagli Alessandra “Il genogramma” Franco Angeli 19889
Piro Sergio “Il linguaggio schizofrenico” 1976 Feltrinelli Edit.
Vedi anche dello stesso autore “Antropologia trasformazionale” F.Angeli 1993 e “Diadromica” Idelson – Gnocchi 2001
Rivieccio Giorgio “Dizionario delle scoperte scientifiche e delle invenzioni” Biblioteca Universale Rizzoli 2001
Schopenauer Artur “L’arte di essere felici” Adelphi 1997 non esiste una edizione in lingua tedesca quantunque gran parte del materiale è ripreso dal testo degli scritti postumi “Der handschriftliche Nachla B. Kremer 1966-1975 Cronologicamente l’Autore elaborò lo scritto tra il 1822 ed il 1829
Varela Francisco J. “Un know-how per l’etica” Laterza editore 1992

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